Appennino, il cuore segreto
Appennini Mountains: the Secret Hearth of Italy

Di Paolo Rumiz

Originale pubblicato da 'Repubblica' dal 31 luglio al 24 agosto 2006

La Topolino sul passo del Faiallo (Ge)

 

In bilico tra climi e dialetti

Primo giorno, dove la Topolino si perde nelle strade del silenzio e incontra la zuppa di fagioli, il bonarda e il formaggio.

Comincia tra le nubi che salgono dal mare il viaggio dalla Liguria alle porte della Sicilia, lungo la spina dorsale del nostro Paese.

Dopo una curva il cielo sparisce, inghiottito da un fiume di nubi che sale dal mare, mille metri sotto. Il trabiccolo blu trema, squassato dal vento, pare un aliante in una turbolenza; schizza odore di ferro, benzina e vernice, s'infila come un furetto nello squarcio tra la brughiera viola, l'asfalto nero-catrame e la muraglia grigia che tuona arrampicandosi verso le creste. Ha trovato il suo corridoio aereo nella linea di scontro tra climi. E' un varco di solitudine così perfetta, che posso fermarmi in mezzo alla strada, uscire, fotografare, rientrare, mentre lui aspetta ronfando con le lucette accese. Tanto, non c'è nessuno.

Poco oltre, nel tunnel grigio, scompare improvvisamente ogni rumore: cigolii, spifferi, sferragliamenti, raffiche, scricchiolìo della ghiaia. Muore anche il cellulare, il viaggio diventa un film muto. In che anno siamo? E dove? In Cornovaglia? Sulla strada per Lima sotto una perturbazione del Pacifico? No, siamo in Italia, sul Passo del Faiallo, quota 1061, sopra Genova. Sotto, la costa più affollata del mondo tace, è una massa di nubi che ribolle come una caldiera. E la macchinina è una pazza Topolino del 1953.


Appennino, si comincia. Davanti a noi tre, forse quattromila chilometri. La distanza dall'Italia all'Iran, ma col triplo dei dislivelli e il quintuplo di curve. Un altro mondo. Pontinvrea, sole e praterie, case a spioventi alti da vecchia Borgogna, un ristorante "Aquila d'oro", un pieno di benzina da sette euro con mezzo paese che guarda. Sassello, il paese degli amaretti, intatto con le vie in selciato, la grande chiesa barocca, le case panciute da inverni lunghi, il mercato in piazza e la macelleria "Giacobbe". Al bar "Gina" puoi farti una piadina e un calice di rosso in compagnia di un carabiniere gentile e una suora dai capelli neri a caschetto. Che senso ha stare sulla costa se esiste un'Italia simile.

Ecco Masone, paese piovoso di gente cupa, con un vento in poppa così forte che andiamo senza motore. Al Passo del Turchino quasi veleggiamo nelle raffiche verso il Piemonte; ci dicono che qui, con la corrente contraria, basterebbe allargare il valico e la nebbia padana colerebbe sulla costa liberando il Nord dalla sua pestilenza grigia. Al Turchino, più che a Cadibona, iniziano gli Appennini. Qui la catena perde la sua solidità alpina, diventa un'altra cosa, un mondo instabile, sismico, in bilico tra dialetti, climi e profumi.

Dopo cento chilometri lasciamo riposare il mulo meccanico sui prati delle Capanne di Marcarolo, locanda "Agli Olmi", un posto di cinghiali e cacciatori, con la foto di Coppi e il manifesto di premiate distillerie. Fuori, l'unica voce è il cuculo nella foresta. Il mio compagno di viaggio si diverte a calcolare il nostro peso, come fossimo un cavallo all'ippodromo. Auto 600, passeggeri 190, bagaglio e pezzi di ricambio 60, benzina 20; totale 870. E' Albano Marcarini, milanese, il miglior ufficiale di rotta su piazza. Conosce le strade d'Italia a memoria: chilometri, dislivelli, toponomastica. Legge favolose guide ottocentesche. Non fotografa, disegna. Matita e acquarello.

Tocca a lui dirigere l'ouverture di questa traversata italiana. "Sia ben chiaro - m'ha avvertito alla partenza a Savona - il nostro è un viaggio alla ricerca delle strade perdute". E così, quando abbiamo preso la Provinciale 29 dal mare a Cadibona, inizio geografico dell'Appennino, per lui era sempre la Statale 29. Marcarini ignora la svendita del patrimonio nazionale travestita da federalismo. Ignora rondò, sensi unici e viadotti; segue la vecchia pista come un bracco, sostiene che dietro ogni rettilineo c'è un imbroglio. Ha ragione: già al paese di Altare, dopo 20 chilometri, una perfida circonvallazione ha cercato di depistarci. Ma lui ha mangiato la foglia e s'è infilato nel bivio giusto verso il Grande Inizio: una fortezza napoleonica coperta di muschio e una cantoniera dimenticata, in località - sentite che nome - "Bocca d'Orso Sagattaro".

Ora la dorsale galoppa con saliscendi nervoso da ciclisti, prolunga la sua gobba verso Oriente, e la Topolino prende le misure del terreno, cerca il suo sentiero mohicano nell'Italia del silenzio. Prime discese, primo freno-motore, primi tacco-punta, con i piedi che manovrano freneticamente i pedali, ti trasformano in organista, un Kappellmeister che preme ansimando sui valvoloni dei mantici sotto la tastiera. La mobilitazione muscolare è totale: è come andare a cavallo, anche le chiappe lavorano. E ogni chilometro è un compromesso tra te e il mezzo che ti porta.

Dopo le gole del Gorzente, arriviamo a Voltaggio con un guado, tra applausi di bambini; poi è la confluenza con un altro fiume e un ponte medievale gobbo come quello di Mostar. Si va con la capote spalancata, i nomi cantano la loro storia: Molini, Pian dei Grilli, Castagneto. La casa natale di Coppi non è lontana, le sue strade cercano quota verso il mare in un'onda lunga di praterie controvento. E a Nord, oltre la linea verdescura del Monferrato, lontanissima, la pianura.

Sul passo dei Giovi si ingolfano ferrovie, strade, elettrodotti, tutto il traffico della Milano-Genova, ma noi filiamo alla chetichella, sordi al frastuono, invisibili tra piloni di calcestruzzo, gallerie e scali merci. Apparteniamo già a un altro mondo, abbiamo le nostre vie di fuga. Luce radente di poppa, l'automobilina sale tra villaggi a precipizio fino al colle di San Fermo, con chiesetta sulla sommità e una vista senza fine. Gli Appennini sono una mandria in fuga. Meraviglia, meraviglia, meraviglia.

Tramonto mandarino su Dova Superiore, provincia di Alessandria, 18 abitanti e una locanda gestita dal parroco. Don Luciano porta zuppa di fagioli, bonarda e formaggio con i grilli, un micidiale impasto marrone che ha già digerito i propri vermi. Parla dei lunghi inverni, dei bambini che non nascono più, dei villaggi svuotati come da una pestilenza, rimasti lì con i letti vuoti e le stoviglie nei cassetti. Qui solo i preti tengono duro: Luciano viaggia come un matto per dir messa in undici parrocchie, ma rischia di non farcela più.

"Tutto è cominciato nel '52, quando hanno fatto la strada". Doveva portare la ricchezza, e invece è arrivata la fine. L'asfalto ha risucchiato la gente quasi per gravità, come un maledetto piano inclinato. Un bidone aspiratutto che ha spazzato via un mondo. Cinquant'anni come un millennio. Capisco che la mia Topolino appartiene all'Italia di ieri, è l'anello di congiunzione fra il dopoguerra e la modernità. Forse, è una lucciola di Pasolini. Forse noi due pazzi stiamo davvero viaggiando a cavallo di una lucciola, nell'Italia degli autogrill.


Nella campagna dell'uomo estinto

Terzo giorno, dove la Topolino incontra elefanti, orsi e balene di montagna Canticchiando mazurche triestine in pseudo-tedesco

Una trattoria con pergola e vino gelato dei colli. Intorno zanzare, ciclisti in fuga, rombo di camion verso la piana operosa. Accanto, quattro avventori che battono carte a "conchino" e sembra parlino uzbeco. Sullo sfondo, Castell'Arquato, turrito guardiano della Val d'Arda. L'auto non va bene, tossisce, fatica a ripartire, ha le batterie scariche. Uno degli indigeni, in canottiera regolamentare, si tuffa felice in quel motore arcano, armeggia, spiega che la dinamo non ricarica. Diavolo, chi si ricordava della dinamo. E' un marchingegno estinto, oggi c'è l'alternatore. Un magnifico nome di una volta. Contiene un mondo perduto, muscolare, privo di carenature e microchip. Evoca i corridori di Olimpia, il fascio littorio e le squadre di calcio ex comuniste di Kiev e Zagabria, la meccanica del ferro. La corazzata Yamamoto, Marinetti, le ardite campate del viadotti, Nowa Huta e il sol dell'avvenir.

Sul pianale posteriore ho la valigia con i ricambi. Albero motore, differenziale, frizioni, pulegge, chiavi inglesi, guarnizioni. E anche la dinamo, ovviamente d'epoca. Arriva il meccanico, mi racconta la storia della sua vita, dice che in mezza giornata è fatta. Penso: mezza giornata, se continuo così arrivo in Calabria fra un anno. Intanto, alla spicciolata, affluisce mezzo paese a godersi la scena. Sono già le undici, mi prende lo sconforto, non sono ancora entrato nel fatalismo del nomade. Non ho ancora capito che le soste forzate, ignote ai contemporanei, sono la benedizione del viaggiatore.

Il topo meccanico, di nuovo in piena forma, risale la Val d'Arda alla ricerca dell'Arca perduta. L'Appennino è una fattoria degli animali, lo capisci dai nomi di luogo. Capracotta, passo del Cifalco, colle dell'Agnello, Cantalupo, Orsomarso, Caniparola, Gole della Gatta, Vaccarizza, perfino Strangolagalli. Ho davanti una penisola di montagne che raglia, grugnisce, abbaia, ulula, bela, fa chicchirichì. L'immaginario si popola di cori animali, genera araldiche sovrapposizioni di mammiferi e uccelli come il mostro dei musicanti di Brema.

"Zwanzig Personen / in Automobil / das ist zuviel / das ist zuviel". La strada verso Bardi è così solitaria che per vincere l'angoscia mi sgolo con una vecchia canzone triestina in pseudo-tedesco. Tempo mazurca, allegro con brio. "In eine Svolten / Auto se volten / zwanzig Personen / sind alle kaputt". Ah, magari guidassi un'auto con venti persone, qui la notte si avvicina con un buio pieno di balene che ti entra nell'anima, e la Topo, piccolina, con le sue lucette, è solo un "mouse" che esplora l'immensità. In Africa, anche in pieno deserto, c'è sempre qualcuno sulla strada. Qui no. La vita è altrove. L'uomo pare estinto come l'elefante di Annibale. Viaggio in uno spazio incomparabilmente più ancestrale e arcano delle Alpi. Queste non sono montagne-bomboniera. Niente alberghi a cinque stelle, niente gerani alle finestre. Solo locande anni Cinquanta con Bartali in fotografia, il manifesto dell'assemblea dei cacciatori, e qualcosa di balcanico nell'aria.

La notte m'inghiotte in un villaggio di nome Noveglia, con un maledetto vento di mare che rimesta temporali. Davanti alla locanda "Geppetto", un cuoco che gli somiglia mi accoglie così: "Benvenuto nel posto dove il mondo finisce". Sembra un sinistro avvertimento. Invece è il prologo di un'accoglienza da re. "La gente scappa da qui e non sa cosa perde", spiega scodellando una pizza al pesto. "Io vengo dall'inferno romagnolo e qui ho ritrovato la vita. Sa cosa le dico? Pianura mai più". Come la balena, sembra uscito anche lui dalla storia di Collodi. E tu ti senti, fatalmente, Pinocchio.


Dentro la cava del fantasma

Appennini, montagne del silenzio. Sono quattro giorni, dalla partenza a Savona, che non vedo un supermercato, un autogrill, un vucumprà o un manager gesticolante con telefonino. Sento ululare, lontano, verso il crinale della Val di Taro. Una parabola sonora appena avvertibile, che muore nel buio come una stella cadente. Guardo la carta appenninica, la dorsale che va a Sudest fra i due mari, e m'accorgo che la mia capretta meccanica sta facendo meticolosamente, al contrario, la stessa strada dei lupi.

Nel negozio di alimentari di Monzone, solido paesone con campanile romanico, ci mettono dieci minuti a prepararmi un panino al salame solo per capire - con sorrisi e domande insistenti - da dove vengo, dove vado e perché uso quel diavolo di macchinina. A Monte dè Bianchi, che traverso in un fortissimo profumo di forno a legna, l'arrivo del viaggiatore è un evento che attira mezzo villaggio. La Topo è teneramente battezzata "Piccina". In posti così capisci il senso della parola "forestiero": sei colui che "esce dalla foresta". E intanto la piramide del Pizzo d'Uccello si svela sopra un curvone. Scintilla, sembra un dentone che sfonda la gengiva della scorza terrestre.

E poi, Ugliancaldo, con quel nome da druidi, le ombre degli indomabili Liguri e le fontane di pietra che paiono menhir. Posti dove Roma imperiale e l'unità d'Italia furono eventi trascurabili. Apuane: se i luoghi hanno un'energia segreta, è impossibile evitare queste cime che emergono come pezzi di banchisa scovolti dalla corrente, oltre l'onda lunga verdescura dello spartiacque Tirreno-Adriatico. Dicono storie dure di cavatori e scalpellini, anarchici e partigiani, cinghiali e bracconieri. Si chiamano Alpi? Che importa. L'ostacolo è irrilevante. Se ci sono Alpi che si chiamano "Pennine", le Apuane potranno pur rubare il marchio d'origine alla più rinomata catena del Grande Nord.


Quando il passo è falso

La strada dell'Abetone e del Brennero si addentra nella brigantesca gola del Serchio, infestata dai Tir e dagli spericolati (oltre che bestemmiatori) ciclisti della Lucchesia. Qui è assolutamente vietato forare: la strada è schiacciata fra fiume e montagna e non contempla piazzole d'emergenza. Sopra la capote aperta della Topolino, intanto, la dorsale appenninica lievita, diventa compatta come una cordigliera. Sto tornando in Emilia, con la fastidiosa sensazione di andare all'indietro, in un viaggio che s'avvita su se stesso.

Gli Appennini sono un dannatissimo affare. Non hanno strade di cresta. Non sono fatti per essere percorsi, ma solo per essere traversati in diagonale. Vie del sale, di pellegrinaggio o di commerci, strade di eserciti, tunnel autostradali, alte velocità ferroviarie, piste di bracconieri: tutto passa trasversalmente e niente in longitudine. La densità di passi è pazzesca, ce n'è uno ogni cinque chilometri. Cisa, Futa, Radici, Furlo: è lì che si concentra la storia d'Italia.

Pazienza che ti ritrovi a sbandare come un ubriacone da un varco all'altro della muraglia. Poiché in questo slalom tra i due versanti non hai belle strade a mezzacosta, ma un sistema a pettine di profonde valli parallele, per andare dall'una all'altra devi imbarcarti in un tormentone di saliscendi supplementari. A quel punto perdi l'orientamento, il tuo slalom gigante si complica, l'andatura si spezza in dislivelli tremendi, e ti scopri intrappolato come un insetto nel mantice plissettato di una fisarmonica.

Sulla statale 67 Tosco Romagnola(Ge)

 


Nella gola del gigante

Il Sasso chiamato Simone naviga sotto le stelle, sul confine tra Marche e Toscana, solitario tra i grilli e un mare di querce nel vento. Sembra una portaerei, con gigantesche murate e una lunga pista sulla sommità. I toscani fortificarono questo bastione naturale per tenere a bada i signori del Montefeltro e le loro rocche di San Marino, Sant'Agata e San Leo. Ma presto lo abbandonarono, per assenza di sorgenti e strade, e oggi la foresta s'è mangiata tutto, le pietre sono appena visibili nell'erba alta. Sul paese-fantasma è rimasta solo una gran croce in ferro, perfetto acchiappafulmini nei giorni di temporale.

Al mattino dopo l'auto sale nella boscaglia sopra Pennabilli in un forte odore di aglio selvatico. Sui tornanti, paracarri tozzi, quasi megalitici. In fondo, il Sasso, in un'aria liquida che lo avvicina come una lente d'ingrandimento. A un curvone proseguiamo a piedi su una traccia fangosa, devastata dai fuoristrada e dal passaggio di cavalli, con un surreale cartello "Velocità massima 30 orari". Incontriamo solo due tedeschi, in quasi un'ora di strada tra piante rampicanti e sfasciumi, finché l'ombra del Sasso ci si allunga sopra, con grigie pareti coperte di licheni.

Sasso Simone è la boa di una regata. Persino i confini gli fanno ressa intorno. Emilia-Romagna, Umbria, Toscana e Marche qui disegnano tali labirinti che, circumnavigando la montagna in senso antiorario, in 40 chilometri esci dalle Marche per quattro volte ed entri in Toscana per altrettante. Sulla mappa troviamo persino un'enclave - un pazzesco Nagorno Karabak toscano - attorno a una frazione di nome Cà Raffaello.

Ma il cielo si oscura, governo ladro. Dopo una gola franosa fra dirupi, facciamo in tempo a vedere un fronte di nubi nero-inchiostro arrivare a tutta velocità da Occidente. Il vento spazza le praterie verde elettrico, scuote la più grande foresta di cerri d'Italia, e il Sasso Simone pare uno scoglio in un vortice di tempeste. Tuona, la temperatura è scesa di quindici gradi, piove sottile, poi a dirotto sui ruderi e i dirupi, e il canalone diventa uno scivolo di fango.

Riparo con Franco sotto uno strapiombo, ma la pioggia diventa monsone, il bosco è percorso da nubi sfilacciate come il fumo di un incendio. La discesa dura mezz'ora in una mota argillosa come plastilina, e al capolinea - quando pensiamo di essere al riparo - scopriamo che anche la Topolino gronda acqua. La capote non tiene. Mettiamo in moto alla cieca, col parabrezza appannato e il tergicristallo anni Cinquanta che fa quello che può, un giro cigolante ogni quattro, cinque secondi. Il passeggero è sotto una cascatella, gli tocca asciugare il pavimento con la spugna di dotazione.

La spugna, ecco a cosa serviva quella dannata spugna sotto il sedile di destra. Chiamo il proprietario dell'auto, devo gridare forte per superare il rumore dell'acqua. Gli chiedo come devo regolarmi in casi simili. "Semplice - fa lui - ti fermi". Ah. Ora lo so, gli amatori delle auto d'epoca si dividono in due categorie: i restauratori e i conservatori. I primi impermeabilizzano, verniciano, chiudono ogni fessura, rendono tutto più felpato e confortevole. Gli altri lasciano tutto com'è. Bene, ora abbiano capito che il proprietario della Topo appartiene alla seconda confraternita. "Se avessi impermeabilizzato le fessure - gracchia al telefono il Righi Roberto mentre ormai mi piove nelle mutande - l'auto avrebbe perduto la cosa fondamentale: l'odore. Non sarebbe più la Topolino".


Viaggiamo alla cieca in boschi totalmente deserti, poi, al passo della Cantoniera, ecco una luce accesa e un camino che fuma. Oltre la cascata leggo a malapena "locanda Capinera". Il posto è perfetto, ma il diluvio è tale che il parcheggio riesce solo aprendo le portiere. Dentro è strapieno di ciclisti: un plotone di belgi alle prese con le tagliatelle al ragù e posseduti da un'insana allegria. Ci accolgono con pacche tremende sulle spalle, mentre dai tavoli si alzano cori per l'arrivo dello spezzatino, e un tipo alla ispettore Clouzot con la maglietta del "Crédit Mutuel" solleva di peso il cuoco appena uscito dalla cucina. Fa freddo, il vento squassa gli alberi, raffiche di pioggia mitragliano le vetrate. E noi si va di grappa con i belgi festanti, come con un'orda di lanzichenecchi papalini.

Non resta che tornare alla base. Nell'auto più niente di asciutto. Nemmeno i documenti. Nemmeno le carte geografiche. In albergo a Pennabilli cerchiamo di recuperare con l'asciugacapelli almeno il libretto di circolazione, e in breve la stanza si riempie di fogli appesi con le mollette. Franco scende sotto la tettoia del parcheggio, apre la capote e le porte del trabiccolo per ventilare la tappezzeria fradicia. Ormai Nerina ha preso il sopravvento. Ci domina. Noi pensiamo prima ad asciugare lei che le nostre mutande. Mi sfiora persino l'idea demente di sostituire l'"io" narrante con il "noi", nel senso di Nerina e io. E' il segno che la "Topo" ha invaso anche il racconto.

Dopo cena il cielo si apre e, tra i lumini dei villaggi e gli ulivi fruscianti, la turrita Pennabilli dal doppio cocuzzolo - Penna e Billi - si svela un'acropoli perfetta, un formidabile luogo dell'anima. Scalpiccìo, rondini, gente che parla a bassa voce; la Toscana ribalda e il divertimentificio romagnolo sono già un altro mondo. Se esiste un luogo dell'identità appenninica, ce l'abbiamo davanti.

La mattina il cielo è una meraviglia, il vento spazza i pensieri. Anche il macinino è pimpante, persino ipercinetico, parte come un segugio a caccia di marmotte, scava verso la pancia del Paese. Il paesaggio si fa più umbro, morbido. Tutto è ricurvo: dalle colline ai solchi della arature, dai meandri dei fiumi al limitare dei boschi.

L'acqua del Bosso è verde, un po' Neretva, preludio di terre da lupi: quelle che portano al Catria, bastione di millesettecento metri sopra il monastero camaldolese di Fonte Avellana. M'accorgo che per la prima volta, dopo la Linea Gotica, la gente ci saluta. Occhiate stupite, di meraviglia, invidia, incredulità; come se la Topolino disincagliasse qualcosa dal sommerso della loro anima. Un automobilista lampeggia, un altro suona il clacson, un altro ancora si sbraccia dal finestrino. Fanno una cosa che in autostrada sarebbe impossibile: cercano gli occhi di chi guida. L'incrocio di sguardi dura un attimo, ma basta e avanza perché sia ordinatamente archiviato dalla memoria.


L'arcipelago delle nuvole

La prima volta ad Amatrice ci vai per un'amatriciana, ovvio. Succede che nella tua locanda una materna cameriera con chignon ti sussurri un confidenziale "che je porto", sapendo perfettamente la risposta, e poi ti serva con cura d'altri tempi, sotto una gigantografia di Bartali e Coppi autografata dal primo. A me capita di avere accanto un tavolo con due poliziotti e un altro con tre operai in tuta. La gente parla a bassa voce, ha un'amabilità speciale. Del tipo: "Che li vole i pomodorini gratinati? Sò boni". Quando esco, la cameriera mi rincorre con la minerale non bevuta, perché "nun se sa mai", in viaggio "pò servì". Bella Italia.

C'è neve sui selvaggi Monti della Laga, arcane piramidi di Cheope. Campotosto è tetro sotto le nubi, il lago accentua la sua tristezza idroelettrica, pare un fiordo norvegese. Per strada poca gente, e quella poca con facce dure, da Erzegovina in guerra. Ogni tanto, gruppi di cani per niente rassicuranti. Gli enormi, bianchi pastori abruzzesi, sono tutto sommato i meno pericolosi: basta che non ti avvicini al gregge e stan buoni. Peggio sono i randagi scuri di taglia media, con l'occhio da killer suonato. Adottano una casa - non importa se vuota - e la difendono da chiunque passa. In due mi azzannano i copertoni della Topo. Non vorrei passare in bici da queste parti.

Al passo delle Capannelle la strada sembra perdere la direzione, smarrirsi in un mare di onde lunghe e irregolari. Poi, oltre un ultimo dosso, cominciano i pascoli, lisci e regolari come campi da golf. M'accorgo d'essere in quota, il viaggio assume una dimensione aeronautica. Nel '43, qui sopra, passò l'aereo di Otto Skorzeny, il tedesco che liberò Mussolini dall'esilio sul Gran Sasso. Ho la sensazione di essere su un dirigibile silenzioso. O forse su una nave in viaggio per altre latitudini. Le Alpi sono pilastri fermi, gli Appennini sono fluidi, un gregge che va, un arcipelago pellegrinante.

A Campo Imperatore nevica bagnato, la strada è deserta, nemmeno una luce. L'auto naviga con lunghe curve tra rotonde gobbe erbose. Difficile credere che mille metri più sotto, nella pancia del Re dell'Appennino, a metà del tunnel che lo buca e lo sconcia di cemento, ci sia un laboratorio di energia nucleare, quello di Zichichi e dei suoi apprendisti stregoni. Ma è proprio là che si celebra la sconfitta del nostro nemico numero uno, il rettilineo. Gli uomini che sparano elettroni alla velocità della luce, all'uscita dal bunker in galleria non possono girare a sinistra, ma solo a destra per via del senso unico. Per andare all'Aquila devono prima uscire sull'altro versante, poi tornare indietro e rifarsi il buco nero sotto il Gran Sasso. Che goduria.

Annotta, c'è un'ombra fradicia in mezzo alla strada. E' uno che ha bisogno di aiuto, si sbraccia nella neve marcia con una pila accesa in mano. Rallento, apro all'incontrario la vecchia portiera, chiedo se posso dare una mano solo per godermi lo smarrimento del naufrago di fronte al macinino sbucato dal tempo. Difatti, quello resta a bocca aperta, non osa mendicare aiuto a un tizio più bagnato di lui su un'auto più bisognosa della sua. Per un attimo si sente solo il ronzìo del parabrezza. Poi l'ombra imbacuccata spiega, ma solo per buona educazione, che gli è morta la batteria in una stradina poco sotto, e dentro l'auto c'è la sua ragazza, la quale sta "preoccupata assai".

Ignora, l'infedele, che la Topo, dovendo sopravvivere ai propri acciacchi, contiene un arsenale inimmaginabile di ricambi e ammenicoli di ogni tipo.

Figurarsi se manca l'occorrente per l'emergenza elettrica. "Ho i cavi - lo soccorro con noncuranza - non si preoccupi. Salga che andiamo a vedere". Si accomoda dubbioso sul sedile bagnato. Quando arriviamo, la ragazza si mette a urlare alla vista del trabiccolo. E' completamente pazza, si sente presa in giro. Lo insulta, lui la calma, inutilmente. Intanto realizzo il ponte con flemma britannica. L'umidità fa friggere i cavi, ma funziona. Me ne vado che litigano ancora nella tempesta, col motore acceso.


Smette di piovere, la torre di Santo Stefano di Sessanio sbuca tra nubi sfilacciate. Ho telefonato per la cena a un posto che si chiama Ostello del Cavaliere, così, solo per quel nome da viaggio anni Cinquanta. Dall'altra parte del filo c'era una certa Rosina. Ma quando arrivo nel temporale, la porta è sbarrata. Nello spiazzo, solo cuccioli di pastore abruzzese che si rotolano felici nelle pozzanghere. Non posso aver sbagliato. Busso: niente. Suono, dopo un po' sento uno scalpiccìo. Apre una signora in tenuta da cuoca. Rosina. "Ah, siete voi!", s'illumina. "Accomodatevi, prego". Magnifico, ho superato un'altra frontiera, comincia il mondo del voi.

"Scusate, ma teniamo la porta chiusa per via del freddo". Dentro non è una casa, è una fortezza profumata d'arrosto. Piccole finestre, muri spessi. L'idea di veranda qui è inconcepibile. L'Abruzzo è costruito per la neve, è terra di scorte invernali. La credenza è piena di legumi d'ogni tipo e colore, farro, ceci, lenticchie, fagioli neri. Solo al bazar di Kabul, altra terra di pastori, ho trovato di meglio. Rosina è come una maga nell'antro fumigante di un alchimista. Depositaria di segrete formule, regna incontrastata sui fuochi e l'anima buia della casa. Le chiedo dove dormire. "Vai alla rocca di Calascio, c'è una coppia con cinque figli che ha camere e buona cucina. Si sta bene". Il "voi" è già diventato "tu".

Calascio, novanta abitanti e un consiglio comunale di nove. Lampeggia, il maniero della rocca che sovrasta il paese appare sull'orlo di una scarpata dantesca. Non so come arrivarci, al bar del paese una bruna dall'occhio ispanico m'istruisce sulla strada mentre cinque avventori maschi tacciono, in stato d'allerta. Quattro chilometri ancora. La strada s'arrampica nel crepuscolo verso ruderi battuti dal vento. Il forte è più vecchio dell'anno Mille, è Camelot e Golgota nello stesso tempo. O forse Mardin, la rocca turca aggrappata al cielo, alta sulla Mesopotamia senza fine. Di nuovo, sopra il mare di nubi che ribolle a valle, quell'impressione di galleggiare, stare a prua di un bastimento.

Susanna, la mamma-albergatrice-castellana, mi viene incontro nel buio per farmi strada tra rocce e muri sbrecciati. Il tempo di un bicchier di vino in locanda e a valle le nubi sono diventate un mare latteo, sotto il quale pulsano in trasparenza le luci dei villaggi. Sopra, in uno squarcio, la Luna. Lontano, le masse nere della Majella e del Sirente. Più in là, l'arcipelago sannitico, sulla linea dei terremoti. A Occidente, i Monti Marsicani oltre il Fucino, il lago che non c'è. "Sono qui da dodici anni - mormora Susanna - e il posto mi emoziona ancora". E' una regina d'inverno: non molla questo posto nemmeno con la neve.

"Ho conosciuto questa rocca anni fa, scendendo con gli sci da Campo Imperatore. Nevicava, nubi uscivano dalle finestre vuote, non c'era rimasto più nessuno. Ma la magia del luogo mi conquistò. Venire qui è stata la decisione più facile della mia vita. Eppure lasciavo Roma, la mia città, una famiglia agiata, un lavoro che mi piaceva, gli amici. Per scommettere su dei ruderi". Ora le pietre hanno ripreso vita, c'è le locanda, le stanze per gli ospiti sistemate nelle vecchie case restaurate, i bambini, qualche famiglia che torna, due comignoli che fumano. Sul selciato giocattoli, un secchio con malta e cazzuola.

Notte da piumino, cani che ululano verso Castel del Monte. Le cime galleggiano sullo strato di nubi, formano un perfetto arcipelago. Una somiglia a Curzola, un'altra a Mèleda, un'altra ancora a Brazza. Ma sì, l'Appennino è solo una Dalmazia senza il mare. Sognerò un transatlantico pieno di orchestrine, in viaggio tra neri promontori. L'epifania dei monti naviganti.


Majella, la dea madre

Le vecchie auto d'una volta ti impregnano del loro odore, come un bravo cavallo da mandria. In tre settimane di sole e intemperie, la Topolino mi ha messo addosso la puzza di un gaucho: un esotico impasto di ferro dolce e cuoio, sudore, polvere e bestiame, con in più un mix vetero-operaio di plastica, stagno, caucciù e guarnizioni. Una mutazione genetica. Mio figlio Andrea, che mi raggiunge in pullman sulla Tiburtina Valeria per farsi un pezzettino del viaggio, mi sente addosso l'odore del trabiccolo prima ancora di salirci. "Una via di mezzo - dice - tra un ranch e una balera di periferia".

Mattina splendida, Nerina rosicchia il pendio verso le gole di Caramanico, in mezzo a sorgenti, fontane, eremi sperduti e l'ultimo rifugio di Celestino Quinto, quello che rifiutò di diventare Papa. Veleggiamo con la capote aperta verso la Majella imbiancata in un terreno andaluso popolato di ulivi. "Attenti - ci hanno detto prima di partire: il Gran Sasso è maschio, la Majella è femmina. Comincia la terra delle dee-madri". Qualcosa di vero dev'esserci: la Majella è rotonda e morbida come le balie tettone d'una volta. Sulla strada solo qualche motociclista e una miriade di ramarri e serpentelli in cerca di tepore.

Sul Passo di San Leonardo il paesaggio si fa austriaco, tutto prati, campanacci e abbeveratoi. Poi è la discesa su Pacentro, una meraviglia. Torri medievali, uno stradone che corre sul displuvio tra rumore di stoviglie e profumo di arrosto. Un negozietto con tutto, dall'uva alle prese elettriche; una donna che mi vende un ombrello giallo con un sorriso stupendo; un barbiere che mi tosa gratis in omaggio alla Topolino e poi mostra dal balcone, una per una, le sorgenti attorno al paese. Sembra impossibile che la gente abbia potuto emigrare da qui. E invece, è scappata così in fretta che ha fatto in tempo a morire per la patria degli altri.

L'America soprattutto. Un manifesto pacifista in piazza parla di due morti in Vietnam, uno sulle Torri Gemelle, uno in Iraq. Verso Pescocostanzo, il treno Sulmona-Casteldisangro ci si affianca come un aereo, ci viaggia accanto sul rettilineo di un tratturo, alla stessa velocità, a cinque metri di distanza. Un unico vagone, con una ragazza che si sporge dal finestrino per salutarci prima che i binari si stacchino dalla strada, e cominci la discesa a precipizio sul Molise.

Capracotta, quota 1400. Nubi basse, vento, per strada solo un cane, un bimbo in bicicletta, la pantera dei Carabinieri e, sui muri, gigantografie di epici inverni con metri di neve per strada. Oltre la chiesa, un precipizio con vista sulla valle del Sangro. In Molise il vuoto cresce. Dopo le grandi montagne-isole dell'Abruzzo, comincia una Polinesia di cime minori. Un perfetto luogo-rifugio per sanniti, longobardi e, si dice, cartaginesi datisi alla macchia alla fine della guerra punica.

Il capolinea della giornata è a Carovilli, un borgo delizioso a 30 chilometri da Isernia, risparmiato dalla peste della camorra e dello spopolamento. Intorno, luce radente purissima su foreste e cime aguzze dal nome eloquente di Penna, Pizzo e Capa. In piazza, l'orafo, il bar, la chiesa sconsacrata del Carmelo, la sede funzionante della società del Mutuo soccorso col biliardo e il gioco della dama. In dieci minuti attorno a Nerina c'è già un robusto capannello. "Topolina" la chiamano, teneramente. Lontano, fischia il trenino della Pescara-Isernia-Napoli. La macchina del tempo accelera, arretra le lancette di un secolo.


L'autostrada degli armenti

Pioggia fine, pascoli e brughiere, la Topolino sale e scende per spazi liberi, bruca tra rocce muschiose e rotonde, terre smeraldo da mago Merlino. Intorno, all'abbeverata, vacche bianche sui prati. "Podoliche" le chiamano, le hanno portate secoli fa i longobardi. Pare che i "lumbard" venuti si trovassero a meraviglia nella dolce terra del Sud dove sboccia il gelsomino e fioriscono i limoni. Talmente bene che si fecero seppellire armati con tutto il cavallo qui, come puoi vedere al museo di Campobasso. Piaceva l'Appennino ai nordisti. Il tedesco Federico Secondo imperatore d'Italia vi nacque (a Jesi) e vi restò. Qui e non altrove scelse di godersi la vita errando di castello in castello con la sua magnifica corte.

Davvero non so perché le Alpi si chiamino Alpi. L'alpeggio vero sta qui, nelle terre lucenti del Sud. In questo viaggio è solo dalle Marche in giù che ho trovato animali al pascolo. Greggi nel Montefeltro, mandrie sui Sibillini, orde di maiali grufolanti sotto i Monti della Laga, di nuovo greggi sul Gran Sasso, ora di nuovo mandrie in Molise. Al Nord non ho visto niente di simile, solo campi deserti e bestie recluse in capannoni pozzolenti d'ammoniaca. Qui nel profondo Sud tutto cambia. Il vero latte è giallo, perché le bestie brucano anche i fiori. Non bianco, come ci fa credere la Padania padrona per rifilarci roba sterile fatta col fieno.


Tutti in coda dietro al santo

Sera di vento sul lago del Fortore, nero come la pece, al confine con la Puglia. A Ovest, le luci di Pietracatella; un grumo di case attorno a una chiesa-fortezza. Ho lasciato il tratturo che va da Campobasso al Gargano; all'altezza della stazione di Ripabottoni (che nome!) ho visto luccicare a Sud, nel cielo di temporale, una sequenza di villaggi su un'onda lunga di alture viola, e ho preso quella strada. La seguirò a lungo, fino al Cilento. Il Sud comincia a Ripabottoni: sembra il titolo di un libro. Come i bivii della vita, anche la boa di un viaggio può essere un luogo minimale, fuori dal mondo.

Ormai è una settimana che fa brutto. Una settimana che mi chiedo che tempo farà domani. Con un'auto normale non mi porrei la domanda. Con la Topolino sì, perché con la pioggia diventa un colabrodo. Col sole o il temporale cambia tutto: andatura, itinerario, umore, approccio col mondo. Il glorioso macinino sente il tempo con la pelle viva. Con l'acqua, questo diario diventa una storia di interni e attese, locande e racconti della sera. Col sole, a capote spalancata, un gioco di saluti, sguardi diretti e incontri sulla strada.

Confesso: un giorno ti ho maledetto, trabiccolo blu. Mi devastavi le tabelle di marcia, mi obbligavi a soste nel momento sbagliato. Era intollerabile. Dopo tre giorni di pioggia ho persino pensato di mollarti in un garage.

Ora è cambiato tutto: mi sono arreso, ho capito che quest'incertezza è un lusso, la madre di tutti gli imprevisti, il sale del viaggio. Non potrei riabituarmi a un'auto per cui il clima fosse una variabile ininfluente. Che noia sigillarsi in una scatola climatizzata [o un treno climatizzato... ndr], un involucro che non sente le stagioni, i profumi e le voci degli uomini.


Sorpresa al mattino: cielo blu-maiolica e Pietracatella, lavata dalla pioggia, che scintilla sulla collina oltre un mare di frumento. Apprendo che in paese c'è la festa di Sant'Antonio da Padova con i botti col fischio e la benedizione del pane. "Non la perda - mi dicono - vedrà i puledri in corteo, i bimbi vestiti da fraticelli e le bimbe coi fiordalisi". La Topo scatta tra il grano e gli ulivi, morde tornanti lunghi, si accoda a una trebbiatrice enorme, quasi sovietica, che arranca sul versante Nord della collina, con a bordo contadini in canottiera che salutano. Non è Italia, è Provenza d'una volta. Andalusia.

Ma proprio allora, quando ormai fiuto latitudini mediterranee, ecco arrivare nel vento - parapam parapam parapampappà - la musica più danubiana che ci sia. La Marcia Radetzky. Non ci posso credere. Un'arietta impettita di casa mia, da sagra dell'ultimo Nordest, ex territorio austro-ungarico, che si spande con pifferi e grancasse nelle terre roventi del Sud. È la banda che scende dalla chiesa-madre e, dopo aver dispiegato il suo repertorio, dà senza saperlo il benvenuto al viaggiatore sbucato dalla Mitteleuropa del caffé crème e della Sachertorte.

Finisco in stato d'euforia in un piazzale pieno di trebbiatrici, tutte in attesa di benedizione. Mi ci ficco: ci sarà pure un po' d'acqua santa per Nerina. Una folla di curiosi già attornia il trabiccolo, un bambino sugli otto anni ci sale sopra, lo scruta con occhio da intenditore, mi chiede quanto costa. "Tanto" gli dico. E lui, furbo: "Ora con la benedizione ti vale il doppio". Intanto la processione arriva, ondeggiando, con la statua del santo portata a braccia. Dietro, un mare di gente, e cavalli innervositi dai botti.

E lì, che ti vedo in testa al corteo, davanti al baldacchino del Santo Antonio, fra i turiboli dei chierichetti e l'incenso? Un giovane prete color cacao, in tonaca candida e paramenti. Un sarracino vero, niro niro, che passa con l'acqua santa tra le trebbiatrici e i mietitori che si segnano. Dopo il benvenuto austriaco, ora sulla macchinina piove la benedizione africana. Sull'Appennino le sorprese non finiscono mai.

Torniamo fuori, l'orizzonte si dispiega a 360 gradi. "Qui è terra dei sanniti, nemici storici di Roma. E qui, dopo Canne, i cartaginesi decisero di sciogliersi e mettere radici. Le loro tracce? Tutte nei nomi di luogo. Pescolanciano, Pescasseroli, Pescara, non c'entrano niente con la pesca. Vengono da "Psq", in fenicio "roccia screpolata". E poi, il Gran Sasso: ha un centinaio di sorgenti dal nome punico, non una che sia greca o latina. Noi molisani siamo così, come fenici e sanniti. Mai sconfitti in battaglia, ma egualmente vinti. Portiamo nel carattere il peso di questo doppio fallimento".

"Statale 17, com'è lunga da far tutta / romba svelto l'autotreno / questo cielo ancor sereno / sembra esplodere d'estate". Sono sulla mitica Diciassette, cantata da Guccini, e non me n'ero accorto. S'infila in un canyon tra i monti della Daunia, coronati da pale eoliche fruscianti nel maestrale. Statale 17: traffico zero, pattuglie di rondini, case cantoniere abbandonate, sole che picchia, vento da ultimo Far West. Case cantoniere: a proposito, chi tutela questo straordinario patrimonio nazionale? Nessuno ovviamente. Rabbia, rabbia contro la consorteria dei dilapidatori della cosa pubblica.

Arriva il tavoliere e la strada per Lucera, implacabilmente dritta. M'accorgo che è il primo rettilineo. Avevo giurato: pianure mai. Era nelle regole del gioco. Avevo detto alla partenza: solo curve e montagne. Così ora succede quello che doveva succedere: dopo oltre duemila chilometri di zig zag, questa strada da New Mexico, dritta come una spada in mezzo al nulla, mi dà la nausea. I Tir mi vengono addosso come per investirmi. Il rettilineo è un luogo vuoto, arrogante e violento. Trenta chilometri senza un paese, un bar, un distributore. Solo piccoli turbini di polvere e barattoli che rotolano nel vento.

Ripiego a Sud verso le montagne, in direzione di Melfi e delle terre felici di Federico Secondo imperatore. Di nuovo saliscendi, di nuovo Appennino. Troia, Bovino, Sant'Agata: com'è grande la Puglia. Il verde profondo del Molise è finito. Ora grano e ulivi hanno una lucentezza dura, metallica, lo stesso timbro freddo. Diventano gemelli come l'oro e l'argento.


I falchi dell'imperatore Federico

Cima di un crinale, motore che ronfa in folle. Intorno, ruderi nel vento, porte sfondate, finestre riempite di cespugli di rosmarino. È Aquilonia Vecchia, cancellata da un terremoto il 23 luglio 1930. L'ultimo lembo d'Irpinia, in bilico tra Campania, Puglia e Basilicata. C'è un silenzio perfetto in mezzo alle due file di case sventrate, tra l'erba alta e i papaveri. Mi viene incontro un trattore; il contadino al volante pare un soldato sovietico tra le macerie di Grozny. Nel profondo Sud il tempo fa strani scherzi. Aquilonia pare l'antica Micene. Stessa terra bruciata, stesse capre, stessa posizione dominante. Sembrano passati più anni fra il 1930 e oggi che fra il 1930 e l'età di Omero.

Un cartello con bandierina blu stellata dice che si stanno cominciando restauri con fondi europei. Restauri di cosa? Come si fa a restaurare delle rovine lasciandole rovine? Già lo vedo: ripuliranno le case dai crolli e dagli alberi di fico cresciuti nei tetti sfondati, chiuderanno il paese al traffico e apriranno un bel "Visitor center". E dopo? Come capire lo sconquasso da bomba nucleare che tre quarti di secolo fa s'è portato via un mondo in dieci secondi? È lampante: senza le erbacce e le capre, il paese-fantasma avrà perso tutto il suo fascino tremendo.

Carbonara si chiamava il paese, prima di sparire dalla faccia della terra. Un nome umile. Poi il Duce volle un paese nuovo, un chilometro più in alto, e lo chiamò grandiosamente "Aquilonia", turgido nome agli estrogeni. E poiché a valle le rovine restavano, lo smisurato ego del regime consentì al figlio di ribattezzare il padre. Carbonara fu Aquilonia Vecchia, con una perfetta inversione genealogica.

Discesa acrobatica verso la valle dell'Osento. L'asfalto ondeggia: in terra sismica le strade, oltre alle buche, hanno improvvisi cedimenti, e la tua auto smotta come un aereo nelle turbolenze, lasciandoti in bocca una nausea leggera. Dall'altra parte della valle c'è Monteverde, arroccato su un colle come la schiuma del mare sulla sommità di un frangente. E in mare ho davvero l'impressione di viaggiare, col mio trabiccolo che ogni tanto emerge sulla vetta di una gigantesca onda anomala e per un attimo, prima di sprofondare nuovamente, può guardare lontano. Nessuna pianura può darti un brivido simile.

È nell'attimo dello scollinamento che si decide un viaggio. Non c'è programma che tenga di fronte a una visione sommitale che ti schiude dei tesori. Ora vedo Monteverde, poi da lì vedrò Melfi, poi Rionero, Ripacandida, Muro Lucano. Grumi di sillabe che ti chiamano, rivelano gli dei che li hanno generati. Non come Aquilonia, nome posticcio pieno di nulla. Forse un vero viaggio andrebbe fatto alla cieca, senza mappa. Così, d'istinto. Come l'amico Roman Arens, un giornalista tedesco che qualche anno fa s'è fatto Monaco di Baviera-Roma in vespino, appunto senza carta geografica, semplicemente chiedendo ai passanti la strada per la Città Eterna. Provateci.


La macondo in terra irpina

Risaliamo in paese, verso casa Zampaglione dove siamo superbamente acquartierati in stanze con letti d'ottone, in tempo per vedere dalle nostre terrazze, oltre un mare di tetti digradanti, la prima luce che sale dalla nobile terra di Puglia. La meraviglia non è solo la luce pastello - verdi, blu e rossi tenui che si svegliano - ma il propagarsi dei suoni. Non s'è ancora spento giù nell'Ofanto il mandolino di Rocco Briuolo che già sento, dall'altra parte della valle, i galli di Rapone.

Dopo i galli, comincia il cuculo sul fiume. Poi i campanacci delle vacche verso Aquilonia. Ma già abbaiano i cani verso Cairano, a Occidente, pazzi dietro Luna calante. Intanto la corriera da Avellino si fa sentire sui "tornanti di Scatozza" (Vinicio li ha battezzati così nel nome di un mitico camionista). E se non l'avessero tolto, maledette ferrovie, si sentirebbe anche il treno sulla linea Avellino - Rocchetta Sant'Antonio. Ovunque, passeri in fregola. Poi, in un incendio arancione, esce il sole e allora devi quasi tirarti dentro, perché le rondini a migliaia ti fanno il pelo sul davanzale.

A sole alto, smaltita la sbornia, con davanti un caffellatte nella veneranda sala da pranzo di casa Zampaglione, ancora non immagino che in una giornata sola, semplicemente circumnavigando il feudo di Calitri, farò più salite che in qualsiasi altra tappa di questo pazzo viaggio appenninico. Infatti, non so che questo è il "paese dei coppoloni". E non so che i coppoloni non sono solo i berretti degli uomini, ma anche le alture torreggianti, ripide e solitarie, da dove i paesi dell'Alta Irpinia si sporgono come falchetti nel nido. Il che comporta, per chi ci vuol salire, dislivelli e pendenze micidiali.


In cima alla montagna sacra

Il sud, quello vero, ci viene incontro appena il trabiccolo blu saluta le terre di Capossela, incrocia l'antica via Appia e oltrepassa la Sella di Conza per iniziare la discesa sul Tirreno. Una mutazione impressionante rispetto all'Alta Irpinia e alla Basilicata appena attraversate. Esausti cani randagi, case non finite, monti arcigni. La segnaletica diventa inattendibile, aumentano le immondizie e l'anarchia del territorio. Palamonte, per esempio. Una posizione superba, come l'irpina Calitri. Ma, a differenza della prima, è distrutta dall'abusivismo. Ti mette sul "chi va là" appena arrivi.

Che succede? Succede che il Sud non ha niente a che fare con la latitudine, e il Tirreno - comunque lo si guardi - è più Sud dell'Adriatico. I Romani chiamavano il primo "mare inferiore" e il secondo "mare superiore", ed era un'intuizione corretta. Savona, per esempio. M'è parsa subito più meridionale di Trieste. E Firenze, più mezzogiorno di Campobasso. Ne consegue che l'Appennino, con la sua muraglia dei lunghi inverni, più che collegare il Nord al Sud, divide lo Stivale per lungo, fra un Nord che è Adriatico e un Sud che è Tirreno. E diventa perciò una frontiera culturale più tosta delle Alpi.

Dopo Sella di Conza la vita prorompe senza regole. Fiori enormi di bellezza esagerata, quasi oscena. Gechi sui muri e i lampioni. Ramarri verdissimi, protervi come camaleonti. L'aria è già quella grassa, napoletana, degli acquitrini da bufale.

Ma passare l'ostacolo della Napoli-Reggio Calabria, proprio in quel punto, è impossibile. Tutto - traffico, svincoli e segnaletica - è contro di te che ti ostini a rifiutare la linea del tuono che ti sovrasta con colonne di autoarticolati in bilico su immensi piloni. Per trenta chilometri, in quel punto, verso Sicignano, non hai alternative all'autostrada. Non c'è nulla che le corra accanto.

Ma Nerina non si arrende. Ci mette mezz'ora per trovare un sottopasso da bracconieri prendendo una stradina contromano. Poi, oltre il mostro di cemento, comincia il silenzio. La valle del Tanagro, solitaria come la Cecenia, e la stradina a tornanti che s'arrampica verso Postiglione - nome che per una Topolino è un invito a nozze - sulla dimenticata Statale 19. Non c'è letteralmente nessuno.

Potrei essere in Colombia, o sulle isole di Capo Verde. E invece è l'Italia dura, estrema, di Carlo Levi e di Cristo che s'è fermato a Eboli. L'Italia lucana di "Rocco e i suoi fratelli" di Luchino Visconti, e di "Tre fratelli" di Franco Rosi. Alla radiolina, le notizie sui disastri in Medio Oriente arrivano come un'interferenza che non disturba il pulsare del tempo.

Sulla salita per il Santuario di S. Maria di Velia

 


La strada che sbuca dal passato

Se volete capire la meraviglia delle vecchie strade italiane, fate la Statale 18, dimenticata dal traffico, tra Vallo di Lucania e il Golfo di Policastro. Rotonde virate a mezzacosta tra gelsi e ciliegi che chiazzano di sangue l'asfalto, uliveti verde metallico nel vento. Fontane zampillanti e paesi nel posto giusto, bar sulle curve a gomito (strepitoso quello di Montano Attilia!) e gente che saluta come al Giro d'Italia. La Topolino è felice, morde il suo terreno preferito, tra ginestre, felci e paracarri, si mostrifica in giochi di cambio, acceleratore e frizione senza sfiorare mai il pedale del freno.

Incrocio un'Ape con un anziano. Davanti a un'Ape è inevitabile fermarsi: dietro c'è un mondo. Sostiamo in mezzo alla strada per parlamentare dai finestrini aperti. Tanto siamo perfettamente soli, in una giungla verde. "Che vulite, la campagna è abbandonata, nessuno face niente", lamenta il nostro, che si chiama Ferdinando e va a zappare il suo uliveto. "I cinghiali, disastro tremendo, ripuliscono tutto, faggiolo, patate, verdure; la campagna nun è 'cchiù nostra. Bisognerebbe recintarla, ma se la vuoi chiure (chiudere, ndr), nun te lassano chiure, qua la politica è fatta per dire de no".

Facciamo picnic sul bordo della strada, il tipo offre salame piccante, pane casereccio e un fiasco di rosso acidulo con acqua fresca che mi disseta in un attimo. Attorno, solo silenzio e passeri. Ah Fernando, l'Ape, la Topolino del 1953, il vino e il salame. Momenti perfetti, che valgono un viaggio. Penso all'orrido rettilineo che risucchia gli italiani e dal profondo mi sgorga il ringraziamento. "O autostrada, madre di tutti gli ingorghi, grazie. Hai svuotato l'Italia, ma dietro una foresta vergine di rovi, l'hai lasciata intatta come il castello della Bella Addormentata". Sì, sulla statale 18 il tempo si è fermato.

Lagonegro, Lauria, Mormanno. Che cosa sono per l'Italia gommata? Niente. Caselli autostradali. Svincoli. E invece, appena fuori dall'autostrada, eccoti un mondo arcano di abbazie e forti arabo-normanni. Tra il Cilento e il Pollino, nel breve lembo di Basilicata che tocca il Tirreno, la schiena del Paese diventa pazzescamente movimentata. La strada s'impenna, devia, s'intorcica su se stessa e non capisci mai bene verso dove. La vecchia Topolino la percorre come la puntina di un grammofono su un disco a 78 giri, ti riporta all'Italia di prima del miracolo economico. Prima di "Lascia o Raddoppia", della Seicento, delle autostrade e degli appuntamenti di famiglia negli autogrill.

Ci ho messo un po' per capire il sesso della Topolino. Maschio o femmina? Qui mi passa ogni dubbio. Femmina. Dai bar i giovanotti le fischiano dietro. Agli incroci perfino i camion la lasciano passare anche senza precedenza. Gli uomini adulti la guardano con stupore infantile e un po' d'invidia, vorrebbero giocare ancora una volta nella loro vita. Ma la controprova sono le donne mature. La squadrano con sospetto, talvolta con fastidio. Oppure fanno finta di non vederla. Fiutano nel trabiccolo il civettuolo magnetismo sull'altro sesso. Sentono la sua sensualità familiare e nello stesso tempo birichina.


Immagina due Carabinieri in attesa su una strada deserta. Metti la Statale 19, tra Lauria e Mormanno, che deserta lo è da vent'anni: da quando l'autostrada, parallela e gratuita, le ha risucchiato tutto, anche la vita, anche il nome. La Statale 19 è diventata "ex Statale 19", rifilata alla provincia di Potenza nel segno sfolgorante della devolution. Ebbene, qui due Carabinieri vedono una Topolino blu del 1953 scendere allegramente dal passo di Prestieri verso le Calabrie. Che fanno? La fermano. Troppa curiosità, per un posto dove non succede niente. Dunque paletta biancorossa fuori, e segno di accostare. Il problema è che la Topo non è in grado di fare infrazioni, va troppo piano. Non c'è straccio di motivo per giustificare l'alt.

Momentaneo imbarazzo degli uomini in nero. "Con questo, ci parli tu", sussurra il più timido dei due. Hanno l'aria mite, nessun segno d'arroganza borbonica. Capisco che tocca a me toglierli dal conflitto. Tiro fuori sorridendo il libretto, che contiene mezza storia d'Italia, un albero genealogico di proprietari. "Dovete assolutamente darci un'occhiata - dico - ha cinquant'anni, non credo abbiate visto mai niente di simile". È fatta, i due sorridono, maneggiano con infinita cura il foglio venerando segnato dal sole e dalla pioggia, possono continuare nel gioco. Fingere che sia un controllo vero, che lo Stato esista su questi monti da briganti, e che la Statale sia ancora Statale. Su una scarpata, il paese di Castelluccio ci sovrasta con mille occhi. In valle, una chiesa trasmette con altoparlanti il canto di un prete, e da lontano pare il richiamo di un muezzin.

Statale 19, che favolosa risorsa. Gli italiani sono degli imbecilli a non saperla usare. Ma che fa la politica? Che fa l'Anas? Se Francia e Spagna avessero strade simili, troverebbero mille modi per valorizzarle, adattarle alla mobilità "dolce". La macchinina blu va, ronza in una solitudine afghana. Qui potresti pattinare, ma che dico: giocare a bocce, a biliardo, berti un Cynar contro il logorio della vita moderna su un tavolino sistemato sulla mezzeria. Italiani che vi serve andare lontano, in Oriente? L'avventura è qui, in Appennino.

Sulla 19 passa un'auto ogni quarto d'ora e tra un'auto e l'altra scende un incommensurabile silenzio. Con la capote aperta senti l'odore del bosco, ti prendi un'ubriacatura d'aria e di sole così forte che scivoli in uno stato di ebete euforia. Mi accorgo che non è solo il risucchio dell'autostrada che genera questo vuoto. È anche il risucchio delle due coste balneari, la jonica e la tirrenica, che qui sono vicinissime e pure equidistanti dalla statale. Una congiuntura favorevole unica. Qui sei fuori dal mondo già a un tiro di schioppo dal mare.


Inseguiti dallo scirocco

Può essere un'impresa attraversare Mormanno, porta delle Calabrie per chi viene da Nord. In questo paesone già greco nell'anima - ma incupito da selvagge montagne e funebri chiese barocche - la Statale 19 diventa un budello affollato, stretto tra farmacie, bar, negozi alimentari e auto parcheggiate di traverso. Praticamente, Calcutta. In un attimo anche la Topolino è in trappola, ferma tra la fiancata di un autoarticolato e la porta d'ingresso di una panetteria, dove una pattuglia di nere comari resta intrappolata per cinque lunghi minuti.

Non so se qui la gente viva con filosofia greca, pazienza buddista o fatalismo islamico: fatto sta che in queste Forche Caudine della Calabria nessuno protesta per gli ingorghi. L'intasamento, al contrario, diventa spettacolo. Nei cinque minuti in cui la mia portiera destra diventa l'unica via d'uscita del negozio (le comari potrebbero rompere l'assedio solo passando attraverso l'abitacolo), ho tutto il tempo di farmi una chiacchierata con gli indigeni appostati sullo stradone. Una scenetta anni Cinquanta che il mio asinello a quattro cilindri, figlio della stessa epoca, registra con perfetta cognizione di causa.

"Buongiorno. Da dove venite?".
Da Trieste.
"Con questa?"
Sì, con questa.
"Giuseppe! Vieni qua, questo viene da Trieste!".
Trieste, che qui è come dire Capo Nord.

Giuseppe arriva, fischia alla Topolino come se avesse visto una bella donna, s'infila nello spazio millimetrico tra il camion e il mio finestrino, incurante dell'ingorgo che ormai blocca l'intero paese, e, senza dire una parola, sfrega il pollice e l'indice della mano destra per mimare la domanda delle domande. Quanto costa. Intanto, l'occhio millantatore aggiunge: te la compro. E subito.

Ovvio che devo stare al gioco e rispondere a gesti. Alzo lentamente gli occhi al cielo, apro la bocca come per dire "aaah", e con una mano disegno una lunga spirale ritmata in levare. Traduzione: cumpà, non avete un'idea di quanto. Aspetto la risposta, e intanto con la coda dell'occhio vedo le donne in nero bloccate nella panetteria. Ci guardano dall'ombra come civette sul comò.

Intanto tre pensionati si schiodano dal muro, dove sono parcheggiati accanto a una Cinquecento rosso mattone. L'arrivo di Nerina è un evento da non perdere. In due entrano nel gioco della contrattazione sul prezzo di vendita. Il terzo invece resta zitto, quasi turbato, fino allo struggimento. Forse, vedendo la Topolino, ha ricordato qualcosa. Lo vedo che cerca a tentoni nella memoria. Come Proust davanti al profumo del famoso biscottino. "Madeleine" si chiamava. Un altro bel nome per la mia compagna su ruote.


Piana del Crati, caldo da vipere, cielo schiantato dallo scirocco. A Catania l'amico Giuseppe Lorenti, che mi raggiungerà in Aspromonte, segnala 42 gradi all'ombra e l'Etna che non rimanda frescura nemmeno di notte. Dai tre gradi con nevischio del Gran Sasso fino a qui, la Topo sembra avere attraversato un continente. A Spezzano Albanese, le scritte in lingua arbresh confermano l'impressione di un safari in un continente alieno. Nel paesaggio ogni ordine è sovvertito: all'anarchia edilizia dei villaggi si contrappone la perfetta geometria degli uliveti, curatissime scacchiere d'argento su terra giallo ocra. E' tutto un po' strano.

Cerco un chinotto, ma non c'è un bar aperto. Compro un melone, e la commessa dolcissima mi spiega che qui nessuno va al bar. Si mangia a casa, punto e basta.

Salita verso la Sila e il paese di San Demetrio, un nome greco che promette finalmente bibite, frescura e tovaglie bianche, ma il caldo aumenta ancora. La strada è deserta, profumata di origano. Unica cosa viva, una postina moracciona su Panda che mi supera, a ogni consegna si fa superare, poi torna a passarmi davanti. Ora desidero solo un grande solitario albero per farmi il mio melone, che a ogni curva rotola tra la portiera e l'albero di trasmissione. In Calabria i ripari dal sole sono pochissimi, e il viaggio si riduce a una sequenza di segmenti tra un'ombra e l'altra. Qui un leccio, lì un pino marittimo, lì un muro sbrecciato. Non c'è abbazia o ponte romano che conti di fronte al miraggio dell'ombra.

Poi, sulla Sila, la frescura è anche troppa. Un ben di dio da non credere. Una Roncisvalle di querce, abeti altissimi e dolci praterie. Ma anche qui, come sul Crati, qualcosa di strano. Niente vacche, niente capre, niente pastori. Mi ritrovo a percorrere un Eden privo di vita animale; l'esatto contrario dell'Abruzzo. E poi, apparentemente, nessuno lavora. Ovunque, un clima da villaggio vacanze, da siesta assoluta. Nei boschi, voci di allegre congreghe di soli uomini. Forestali - addetti a posto fisso della prima azienda regionale - che se la spassano alla grande in attesa che il giorno finisca.

Comincia la discesa verso le terre roventi dell'alba. Lo Jonio, sul lato di Crotone, dove come in nessun altro luogo puoi vedere il sole sorgere dal mare. Sotto i mille metri finiscono le foreste, cominciano gli eucalipti e nugoli di mosche annunciano strati di caldo africano.

Il cielo è di nuovo incandescente, odora di stoppie bruciate, la Topolino diventa un forno, puzza di cuoio, gomma e olio minerale. Comincia, anche, il tormentone della capote. Se la apro, mi ustiono. Se la chiudo, mi cucino al forno. E i finestrini, che si aprono in orizzontale, non lasciano un varco superiore ai venti centimetri.

San Giovanni in Fiore! Nessuno penserebbe che un posto con un nome simile, al limitare delle foreste della Sila, sia un grumo metropolitano di edifici, un inestricabile labirinto di cemento. Invece, San Giovanni in Fiore è esattamente questo. Una tumultuosa cascata edilizia. Il paese ha una sua paradossale, franosa coerenza, dal cimitero, in alto - un condominio di morti sovrastato dai piloni immensi di una superstrada - fino all'abbazia in basso, ovviamente chiusa, priva di indicazioni e nascosta da un luna park in disuso.

Alla radiolina sento una dichiarazione della presidenza regionale. Dice: stiamo perdendo il controllo del territorio di fronte alla delinquenza organizzata. Una resa. M'accorgo che l'Italia non si ritira solo da Nassiriya, e sta giocandosi in casa partite altrettanto toste. Scendo a precipizio verso oriente, in un cielo senza colore, tra bei villaggi arroccati e sconosciuti. Sono cotto di caldo e di montagne, vorrei solo levarmi la scarpe e incollare i piedi a un fresco pavimento in pietra. Vorrei, ma non posso. L'auto ha sete, devo fermarmi per mettere acqua nel radiatore. In questa tappa infinita ha bevuto in continuazione. Scende la notte, per la prima volta ho paura di non farcela.


Sulla bocca del vento

La notte non ho chiuso occhio. Verso l'una, esasperato dalle zanzare, ho sentito la musica di un concertino sulle mura del castello, mi sono alzato, ho ripreso la Topolino e sono andato a vedere. Tutto il paese era sveglio per lo struscio. All'una la vita incominciava. Era l'ora del dopocena, le famigliole arrivavano con nonni e bambini. E la piazza, una balconata superba fra torrioni e chiese barocche, era coperta di tavolini, giovanotti in tiro, anziani intenti nella briscola, ragazzine al pascolo sotto gli occhi dei genitori.

Ho finito per dormicchiare su una panca in pietra, con i piedi scalzi appoggiati al marmo fresco di una chiesa. Intorno, niente televisori, discoteche, urla sguaiate. Solo brusìo rassicurante, tintinnìo di bicchieri, e una bastardina che mi si è accucciata accanto. Di nuovo, la Topo m'aveva portato negli anni Cinquanta. Ero a Salamanca, Burgos. O forse nella Grecia d'una volta.

La commessa del vicino negozio di verdure, dove compro un profumato melone, mi spiega che Cropani è il posto più bello del mondo e lei non lo cambierebbe con nessun altro. Gongola: "Guardi quante chiese abbiamo". Oltre all'Assunta ci sta San Giovanni, ci sta il monastero dei Cappuccini, ci sta l'antichissima Santa Caterina, e poi la Madonna della Catena, e poi la vecchia Sant'Anna ora sconsacrata, e poi ancora ancora ancora. Cripte, cunicoli, campanili. E quella superba posizione alta sullo Jonio delle vele nere e dei pirati.

Finisco sulla costiera per assenza di alternative, e subito l'abitacolo comincia a tremare. Vento! Improvviso e benedetto. A Roccella Jonica si spalanca un altro cielo. La Topolino è felice; viaggia controcorrente, se potesse si alzerebbe come un deltaplano. Sono nel punto più stretto d'Italia: tra qui e la piana di Lamezia sull'altro mare, appena trenta chilometri. Forse per questo tra la Sila e le Serre - avanguardie d'Aspromonte - la corrente d'aria è così forte.

"El vento xe volubile / la donna ancora pezzo / e mi che son in mezzo / no so più cossa far". Il corpo torna a temperature umane, canta a squarciagola canzoni di casa sua. Borgia, Girifalco, Cortale. Boschi, fontane, torrenti. D'un tratto, la Calabria gronda d'acqua. Quanti Appennini ho incontrato in Calabria! I Carpazi (la Sila), gli Emirati arabi (Crotone), la Grecia (la costa di Lamezia), le Prealpi francesi (il fresco spartiacque delle Serre). Tutto in una giornata sola. E su tutto, un'inquietudine sismica scritta nel paesaggio.

Chiediamo da dormire, ma ci rispondono che è tutto pieno. Strano: non c'è nessuno oltre a noi e la Banda dell'anatema. Mezz'ora dopo l'enigma si risolve. Arriva un pullman, pieno di ragazzi sui diciotto-vent'anni, che occupano rumorosamente il resto della sala. Gita scolastica? No, la scuola è finita. Ma allora cos'è? Lo spiega l'autista della corriera. "E' la maturità dei privati". Cioé: gita in montagna con promozione garantita, nel premiato diplomificio di Serra San Bruno, legalmente parificato e legalmente finanziato.

La notte sognerò Pinocchio, e i somari-bambini nel Paese dei balocchi.


In punta d'Italia

Mille metri, in bilico tra i due mari, con faggete immense e tappeti di foglie secche di una regolarità inglese. Ombra e vento, mucche libere che attraversano la strada. Meraviglia. Passa un ciclista, mi chiede dove vado.

Aspromonte, gli dico.
Lui: "Piacere, Alberto Laganà, di Lamezia".
Mi presento.
"Ma lei è quello del viaggio in bici a Istanbul!".
Gli dico che se potessi gli darei la Topo e continuerei in bicicletta.
"Deve farlo, l'Aspromonte è un mondo".
Non so, dico, la Sila mi ha deluso.
"La Sila? Niente è. Qua deve venire. L'Aspromonte è un'altra cosa. E' il nostro Ararat, il Fujiama. Macchia impenetrabile, serpenti di sabbia che scorticano la montagna"
Tornerò, gli prometto, con la mia bici.
"Venga e la porto con me. Faremo la Fiumara del Buonamico. Una fiaba. Il mare sembra lontano mille chilometri".


Compare Saro mi disse una notte: che senti nel bosco? Io dissi: o ventu sento. E lui: scimunito, questa acqua è. Aveva ragione, c'era un torrente. E all'alba lui era lì, nel posto giusto a pescar trote". Sono uscite le stelle e Antonio Barca, proprietario, costruttore e gestore del rifugio di Piani di Carmelìa, quota 1260, racconta come ha imparato a conoscere la Montagna Sacra dei calabri. L'Aspromonte, alto come un transatlantico nel mare senza fine.

Antonio ha fatto tutto da solo. Ha trovato il terreno e costruito il rifugio con oltre venti letti. Oggi ha la schiena rovinata dalla fatica ma non si lamenta, è felice di vivere quassù. Ha acceso il fuoco, a tavola c'è sua moglie Marie Thérèse, c'è Diego Festa, la guida scesa dal cielo che m'ha aggiustato la Topolino, e l'amico Giuseppe Lorenti che m'ha raggiunto come un falchetto da Catania. La macchinina è fuori al fresco, sporca e felice.

"Mio padre e compare Saro mi hanno insegnato a conoscere la montagna, a muovermi senza mappe di notte ascoltando il rumore dell'acqua, a trovare le tane delle martore, a cacciare i ghiri dopo la festa dei Morti. Ah, i ghiri! Una leccardìa sono, la carne più delicata del mondo... Ho imparato tutto da bambino: vedevo ghiande a terra e sapevo se le aveva rosicchiate il ghiro, il topo, il moscardino o la ghiandaia. Questo è il mio mondo, la vita mia".

Per un attimo scende il silenzio. "Ma è dura quassù, Paolo. Non sai quanto è dura. Le colombe partono e i corvi restano. L'emigrazione è ripresa alla grande. Ma io ho detto no, non sono partito, ho investito qui tutto quello che avevo. Questa montagna è una favolosa risorsa per i giovani di buona volontà. Ma quasi nessuno mi aiuta. Pensa che un giorno è venuto qui il presidente del parlamento danese, con i figli e il sacco a pelo. E' rimasto folgorato dal luogo. Te lo vedi un politico italiano che fa la stessa cosa?".

La notte, nel dormiveglia, sento un cric, cric, cric, lento e regolare come un orologio a bilanciere nel silenzio. E' la voce del tarlo. Non posso chiudere occhio. La Calabria mi pare la quintessenza dell'Italia, cioè di quella selezione negativa della specie innescata dalla santa alleanza dei mediocri e degli imboscati.

Troppa bella gente dimenticata. Trovo una vecchia lettera di Francesca Viscone, di Lamezia Terme, che m'ha scritto tempo fa sulle terre infuocate dello Jonio.

"Ho conosciuto - leggo - un anziano di San Luca, nella Locride. Aveva uno sguardo intenso pieno di interrogativi, di immagini e di incanti. Era un inventore, aveva costruito diversi strumenti strani. Arrivò con una busta piena di queste curiose invenzioni. Ce ne diede una, ma non voleva soldi, era solo un segno di ospitalità. Paesi come San Luca sono pieni di intelligenze così... Una genialità sprecata, male espressa, male indirizzata... Siamo pieni di geni trasformati in scemi del villaggio, e di uomini fieri trasformati in inetti. Di inventori che non inventano niente e fanno regali agli sconosciuti".

Il tarlo ha smesso di rosicchiare. Un po' di vento nella foresta. Mando un sms a Roberto Righi, proprietario della Topolino: "Nerina pronta all'ultimo balzo. Domani Capo Sud". Premo "invio" e sparo verso le stelle.


Saliamo a piedi sopra la forra del torrente Ladro, il pendio è di una dolcezza svizzera fin sulla cima del Monte Cocuzza, vetta d'Aspromonte. E' l'ultimo "Pen", l'ultima delle dee di pietra che danno il nome alla schiena montuosa d'Italia. Un Cristo in bronzo, portato in elicottero dalla base Usa di Sigonella, governa una vista immensa sulle Eolie, l'Etna e la terra dei bronzi di Riace. La diversità tra i due versanti, Jonio e Tirreno, è sconvolgente. Il primo: abbacinante, scarnificato, battuto da piogge violente e siccità africana. Il secondo: boscoso, verdescuro, percorso da torrenti regolari e piccoli canyon.

La guida, per impressionarci, ci disegna la mappa dei sequestri di persona. "Ecco, laggiù fu nascosto Soffiantini. Lì, un po' più a destra Casella. E lì in fondo hanno trovato, quattro anni fa, le ossa di un fotografo fatto sparire negli anni Ottanta". In mezzo a questa topografia ansiogena, il santuario di Polsi, nascosto tra i dirupi, dove si bivacca, si sacrificano i capretti e dove, quest'anno, il 2 settembre, la Madonna sarà incoronata con una festa particolarmente solenne. Fino a ieri, per la Madonna si sparava in aria. Gli uomini d'onore della Locride facevano "pam pam" come gli Schuetzen in Sudtirolo.

L'arcipelago dei paesi-fantasma che costellano l'Aspromonte sul versante Sud è annunciato, tra Delianuova e Gambarie, da una cantoniera in disfacimento abitata da vacche libere, in condominio con una repubblica autonoma di maiali. Le bestie vanno e vengono, grufolano e ruminano sulla Statale 183, non hanno la minima paura di noi. Ma il bello, mi raccontano, viene dopo, con le terre nude verso Africo e Roghudi, ultimo resto di una gloriosa terra greca che fu Magna e oggi è il monumento all'abbandono.

Anche lì le bestie hanno preso il posto degli uomini. Ad Africo i maiali in combutta con i cinghiali hanno occupato la chiesa vuota. A Roghudi le coturnici hanno fatto il nido in quello che fu il bar. A Pentedattilo, posto di superba bellezza, non c'è più un'anima. Da qualche parte hanno ricominciato a fare le messe in greco, c'è padre Milo che fa il prete-viaggiatore, ma serve poco. Bova si spopola a vista d'occhio. E a Gallicianò se ne sono andati in tanti: anche Kalinera, che dava una mano al papà nell'unico bar del paese. La bellissima Kalinera dal nome greco. Bruna come la protagonista di Mediterraneo.

Scendiamo verso Capo Sud nella fiumara incandescente di Melito. All'incontrario, è la stessa strada di Garibaldi, quella presa dopo il secondo sbarco, nell'estate del 1862. La spedizione finì subito perché l'eroe dei due Mondi fu ferito dopo Gambarie, sotto un pino biforcuto, oggi monumento in totale e scandaloso abbandono. La Statale 183 spacca l'Aspromonte come una mela, ti spara impeccabilmente a ore dodici verso il Sud astronomico per consegnarti, al millimetro, nel punto più meridionale d'Italia: Melito di Porto Salvo, contrada Lembo. Solo otto metri più a Sud di Pelizzi Marina, che sta poco prima di Capo Spartivento.

Passi la congestione del traffico, la superstrada, la ferrovia, i fichi d'india, lo scirocco, e il punto del secondo sbarco garibaldino è lì, segnato da un'alta stele di metallo. Impossibile che il nostro abbia scelto per caso. Garibaldi era attento ai simboli. Non poteva ignorare che quello era il terzo punto più meridionale d'Europa, dopo Gibilterra e Capo Matapan. La forza magnetica del luogo è tremenda, come Capo Nord in Norvegia. Ha ragione il poeta calabro Enzo Alampi: qui è come se vedessi nella gente mille "bussole di bronzo con le facce orientate a Sud".


Sera viola con l'Etna oltremare, una birra, una tovaglia bianca, la risacca. La televisione del bar dice che la guerra in Libano può riprendere, mi notifica che per quasi un mese ho vissuto fuori dal tempo. Il viaggio è finito. Finiti i paracarri, gli alberi di more, le case cantoniere, le fontanelle sui curvoni. Nerina è parcheggiata nel sotterraneo di un hotel, domani verranno a prenderla quelli della Fiat per portarla in clinica a Maranello, in casa Ferrari. Sarà dura fare a meno di lei. Ha trasformato le strade di casa in un'avventura, ha visto la neve e temperature irachene, ha scoperto un'Italia pulita e senza voce.

S'è svegliato il maestrale, la punta d'Italia sembra navigare controvento verso Nordovest. L'Etna ora è color prugna, è un dio vicinissimo. E' l'ora in cui il Tirreno si gonfia e preme tra Scilla e Cariddi, forma un fiume che spumeggia nello Jonio. La corrente è tale che ogni tanto strappa dal fondo pesci mostruosi per abbandonarli sulla battigia. Passa una vela al largo. Ha la stessa velocità delle schiume. Sembra ferma.


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PS Lo stagniweb usa sempre più spesso gli scritti di Rumiz come una specie di prezioso "bagaglio culturale". Se per caso l'autore passasse da queste parti, sarei lieto se mi facesse un cenno!


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